M. Rivardo / M. Muzio Treccani
Il ‘900 è stato definito da molti come il secolo della psicoanalisi, secolo nel quale non solo la psicoanalisi si è affermata come scienza, ma ha influenzato l’arte, i costumi, il modo stesso di pensare.
Oggi la psicoanalisi non solo non sembra influenzare né l’arte né i costumi, ma sembra che essa stessa sia andata incontro a una sorta di involuzione, di sclerotizzazione del sapere psicoanalitico, come se avesse dato tutto quello che poteva dare, sia in campo clinico sia in campo teorico.
Come per l’arte, periodicamente si levano voci a decretarne l’esaurimento e la fine.
Accostare la psicoanalisi all’arte non è del resto arbitrario se solo pensiamo che la composizione di un quadro, non diversamente in questo, come vedremo, da un percorso di analisi, riguarda sempre un prendere forma che impegna anche la creatività di chi se ne assume il lavoro. Un lavoro che riguarda il reperimento inventivo di una forma di vita.
Ripercorrendo ciò che è accaduto alla psicoanalisi del dopo Freud, possiamo rilevare che le varie scuole psicoanalitiche che si sono succedute nel tempo il più delle volte hanno ipertrofizzato un aspetto del sapere freudiano. Ne è un esempio la psicologia dell’Io, che ha ipertrofizzato il tema dell’Io a scapito di altri aspetti del sapere psicoanalitico, con l’effetto di aver ridotto la psicoanalisi a una psicologia dell’adattamento.
Jacques Lacan fa una rilettura di Freud, a partire dall’irriducibilità del soggetto all’Io, formazione immaginaria di matrice narcisistica. Lacan, contro ogni deriva adattativa, colloca la nascita del soggetto nella dimensione linguistica e temporale la cui cifra è racchiusa nella proposizione l’inconscio è strutturato come il linguaggio dove il soggetto stesso è un effetto di linguaggio.
In questo modo Lacan restituisce all’esperienza dell’analisi la sua vocazione avventurosa di scoperta dell’inconscio, valorizzando quello scarto creativo che rende ciascuno, nelle sue articolazioni psichiche, un soggetto unico.
E tuttavia anche Lacan, al cui lavoro si lega la sopravvivenza stessa della psicoanalisi, ha a sua volta aperto la via alla ipertrofizzazione di un aspetto della teoria psicoanalitica ponendo nel riferimento al linguaggio l’unico ambito nel quale far confluire tutto il sapere psicoanalitico.
Se ora si rilegge Freud seguendo la sua stessa indicazione che il lavoro psicoanalitico è primariamente un work in progress, e che c’è ancora molto da scoprire, ci accorgiamo, partendo da questa posizione, che non tutti i concetti elaborati dal fondatore della psicoanalisi hanno avuto la medesima fortuna.
Ma prima di addentrarci su questo terreno, sulla possibilità di riprendere idee e indicazioni di lavoro per farne il perno della nostra ricerca a partire dall’esperienza della clinica, vale la pena di soffermarsi su dove si appoggia quella che oggi avvertiamo come una involuzione della psicoanalisi, un rinchiudersi su sé stessa, sia come clinica sia come teoria.
Non diversamente da quanto è avvenuto in altri campi, anche la psicoanalisi è andata incontro a un fenomeno di globalizzazione che ha prodotto un duplice effetto negativo. Da un lato la psicoanalisi è stata impiegata come nuova e ultima possibilità della filosofia, dall’altro è stata ridotta, come altri saperi nell’epoca della globalizzazione, a mera tecnica. Quello che è venuto meno in questi anni è un sapere, una teoria della psicoanalisi che nasce dalla clinica.
Oggi infatti è raro vedere nella pubblicistica psicoanalitica l’esposizione di casi come ce li ha presentati Freud, e mostrare come ha fatto Freud l’emergere e il consolidarsi della teoria psicoanalitica dal lavoro clinico. Al contrario, si assiste oggi a una applicazione tecnica della psicoanalisi a quelli che vengono definiti “i nuovi sintomi”. Un esempio in questo senso è il concetto lacaniano di “nome del padre”, servito come salsa a spiegazione tecnica del nuovo che avanza. In questa banalizzazione della psicoanalisi il sapere psicoanalitico si perde.
Come recuperarlo?
La via regia, non solo per la conoscenza dell’inconscio ma per far sgorgare la teoria psicoanalitica dalla clinica è il sogno, così come ci viene indicato da Freud.
Attualmente sembra che gli psicoanalisti non siano più interessati al sogno, come già ebbe a lamentarsi lo stesso Freud, “più nulla da dire sul sogno?”. Al contrario scopriremo che proprio a partire dal sogno si aprono nuove e inaspettate frontiere per la psicoanalisi. E soprattutto constateremo che la teoria della clinica psicoanalitica è la stessa della teoria del sogno. Il lavoro dell’apparato psichico nel sogno, ogni notte, cerca una composizione, una lavorazione dell’angoscia del sognatore, operando uno spostamento nella rappresentazione, mediato dalla censura, delle immagini traumatiche che presiedono ai pensieri latenti del sogno. È da questo lavoro dell’apparato psichico che provengono le indicazioni per la direzione della cura.
È qui che si colloca il rapporto tra clinica e teoria.
Se si parte dal lavoro che il sogno compie nel tradurre i pensieri latenti in quelli manifesti, si scopre la passione del sogno per le forme e i colori. Il sogno considerato da questo punto di vista non si riduce a una ragione discorsiva, ma alla sua costituzione e costruzione presiede una ragione spaziale che si articola in luoghi, forme e colori.
Una causa della sterilizzazione del sapere psicoanalitico è stata la constatazione, determinante per molte scuole psicoanalitiche, che il sogno in analisi viene raccontato, da qui si deduce che l’analista per la sua interpretazione deve basarsi solo sulla parola, come se nella parola ci fosse un riferimento unicamente segnico e temporale, e non spaziale, mentre in ogni parola e nella forma stessa delle lettere, c’è anche un riferimento allo spazio. Cancellarlo, come ha fatto Jacques Lacan traducendo la condensazione e lo spostamento in termini puramente linguistici (metafora e metonimia), ha comportato una limitazione della ricerca psicanalitica sul sogno. In questa concezione lo spazio viene riassorbito nella dimensione temporale della parola.
Accanto alla dimensione strutturale linguistica, su cui si impernia in gran parte la ricerca lacaniana, dobbiamo infatti porre la nascita del soggetto anche nella sua dimensione strutturale spaziale – ricordiamo l’indicazione di Freud l’inconscio è esteso e di ciò non sa nulla – che ha la sua connotazione architettonica, come vedremo, nella rappresentazione di un luogo, che Virginia Finzi Ghisi ha denominato luogo della fobia, da cui ha inizio, per ciascuno, la formazione della sua vita psichica, il suo nascere al mondo come soggetto, che non coincide con il momento in cui un bambino, ogni bambino, nasce.
Questa dimensione è stata esplorata e approfondita da Virginia Finzi Ghisi e Sergio Finzi nei loro numerosi studi che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, la hanno arricchita di nuove scoperte circa il ruolo che il disegno, e la lavorazione delle forme e dei colori, assume nella strutturazione del soggetto, fino a mostrare che il nostro stesso apparato psichico è un disegno la cui formazione ha a che fare con la teoria dell’arte della composizione. La stessa arte nella quale il pittore Paul Klee è maestro.
Tenere conto di questa dimensione apre a degli avanzamenti non solo per quanto riguarda la psicosi e l’analisi dei bambini, di cui seguiremo, con esempi diversi, lo strutturarsi dell’apparato psichico, ma anche per lo studio di territori solitamente esclusi dalla psicoanalisi, come l’Alzheimer e i disturbi del linguaggio. Due campi in cui, non a caso, l’accento della cura, in genere tarata sui sintomi, cade quasi esclusivamente su delle variabili inerenti a una tecnica riabilitativa.
Per articolare lo spostamento che proponiamo, dalla nascita di un soggetto fondato solo sul linguaggio, alla teoria della nascita di un soggetto composito nel quale lo spazio svolge una funzione primaria, è necessario mostrare come la teoria sorga dal lavoro clinico, dall’insegnamento che si può trarre dalla clinica. Questa è la via percorsa da Freud che, dall’esposizione dei suoi casi più famosi al costante riferimento ai suoi pazienti in analisi, ha permesso il sorgere e il consolidarsi del sapere psicoanalitico, il suo costituirsi come scienza delle strutture e delle varianti della psiche. Da questo punto di vista, l’espressione work in progress, ancorandosi alla pratica clinica, riduce la possibilità che la ricerca si orienti verso la facilitazione costituita dall’ astrazione e dalla generalizzazione del sapere.
Cominciamo quindi con il presentare due lavori, tratti da ambiti diversi, che hanno la caratteristica di mostrare come la nascita del soggetto parta dalla lavorazione di un fondamento psicotico che appartiene a tutti e che non va confuso con la psicosi.
Questa lavorazione, a seconda delle modalità con cui avviene, può avere esiti psichici differenti: può fermarsi a un certo livello, come avviene nella psicosi che del fondamento psicotico soffre tutte le angosce e i terrori, oppure può proseguire fino alla formazione di una barriera, la barriera anti-incesto che nel bambino si costituisce intorno ai quattro anni, che permette a ciascuno non solo una lavorazione del fondo psicotico ma anche di operare quelle scelte psichiche che costituiscono per il soggetto l’incipit di un cammino e di una storia sua propria.